
Avatar 2: La via dell’acqua – la recensione del nuovo film di James Cameron
Tredici anni dopo il seminale primo capitolo, James Cameron torna alla regia con un sequel ancora più ambizioso e spettacolare.
La storia del cinema ci insegna che esistono tanti modi diversi per fare un sequel: e poi c’è James Cameron.
A tredici anni dall’uscita del primo Avatar – non solo ancora oggi l’incasso più alto della storia del cinema ma soprattutto il blockbuster d’autore per eccellenza, quello che più di tutti, insieme a Il signore degli anelli di Peter Jackson e Mad Max: Fury Road di George Miller, ha saputo trovare un equilibrio perfetto tra spettacolo visivo e necessità artistiche – il regista canadese torna sulla luna abitata di Pandora, e a guardare questo sequel Avatar 2: La via dell’acqua viene da pensare che i 400 milioni di dollari di budget – il più alto di sempre, tanto per chiarire – siano serviti a James Cameron per volare davvero su un altro pianeta e girare il film in location: perché, lettrici e lettori, signore e signori, amiche e amici, qua siamo proprio fuori dal mondo, cazzo.

Non ci stancheremo mai di sottolineare come il capitolo originale, da un punto di vista critico e di stampa, ma anche di ricezione generale da parte del grande pubblico, sia stato vittima di un grosso equivoco: non era semplicemente un’opera panteista dall’animo magnanimo-ecologico pre-Greta Thunberg e post-Pocahontas, ma il coronamento dell’ipertesto cameroniano sull’evoluzione del corpo e l’avvicendarsi del biologico e del tecnologico come evoluzione dello stato-umano, uno stato “nuovo” del vedere verso cui il film stesso porta lo spettatore trasformando la visione in un’esperienza. Erano la frase simbolo ‘io ti vedo’ e gli occhi spalancati sul finale a gridarlo, ma molti non se ne sono accorti: se il cinema dell’autore canadese ha sempre concepito la macchina come subordinata all’uomo, da Aliens a Terminator 2, da Alita a Strange Days a The Abyss, segnando una graduale sostituzione del corpo-carne in favore di un corpo-altro, Avatar andava oltre l’uomo e ci insegnava a vedere di nuovo, con occhi diversi (quelli dell’Avatar, quelli degli occhiali 3D), conferendo un corpo digitale tangibile al supercampo audiovisivo teorizzato da Michel Chion. Le possibilità offerte dal “nuovo vedere” diventavano vaste quanto può esserlo la fantasia dell’autore, e l’emblematica frase Na’vi andava vista (perdonate il gioco di parole) come il punto di arrivo di un cinema del sensoriale, del vedere. L’obiettivo del film non era mai stato quello di mostrare qualcosa di nuovo, ma di vedere il già visto in un nuovo modo.
Avatar 2: un sequel ancora più ambizioso
Ed è proprio da questo approccio che riparte Avatar 2: La via dell’acqua: prima di essere il re del box office James Cameron è sempre stato il re dei sequel (il modo in cui ha ribaltato il senso di Alien di Ridley Scott in Aliens: Scontro finale e quello del suo primo Terminator nel secondo capitolo Terminator: Il giorno del giudizio ha fatto scuola), e nel decennio e più passato dal capitolo originale questo non è cambiato, anzi: La via dell’acqua è un’amplificazione di tutto ciò che Avatar era stato, e prosegue quella fluidificazione delle immagini che il cinema digitale ha portato nel medium, costringendolo ad evolversi ancora.

Quante volte oggi sentiamo dire la frase ‘quel film sembra un videogioco‘, o viceversa? Avatar è stato il progenitore di questo movimento (in chiave live-action), disgregando lo spazio tridimensionale della messa in scena fisica per portarla nell’immateriale dello spazio digitale, e questa volta Cameron utilizza La via dell’acqua per tuffarsi in quell’immagine irreale e ampliarne i confini: rientriamo in mondo unico, nuovo, mai visto prima, lo guardiamo come è possibile guardare solo sul grande schermo, dove il vero e il falso diventano un tutt’uno inedito, trasversale, interconnesso. Questo è grande cinema, signori (e le nomination ai Golden Globes 2023 se ne sono accorte).
E poi si, chi nel primo episodio non aveva trovato una storia, non aveva trovato dei personaggi, non aveva trovato un racconto, non aveva trovato emozioni, qui non avrà di che lamentarsi: l’inizio spiazza perché, più che in medias res, è un’intromissione in una quotidianità altra (‘La via dell’acqua non ha un inizio e non ha una fine’, sarà ripetuto in due diversi punti nevralgici della narrazione) e da lì le tre ore e dieci di durata sfrecciano piene, stracolme di cose da vedere e da scoprire: c’è un nuovo mondo che si spalanca di fronte ai nostri occhi in Avatar 2: La via dell’acqua, è un ritornare al primo film per ampliarlo come solo James Cameron sembra in grado di fare: guardate come il film si costruisce sui rapporti tra i personaggi, lungo i loro archi narrativi, guardate come tutto sembra intimo, dolce, profondo, e come queste intimità, queste dolcezze, queste profondità, vengano sempre e comunque dall’esplorazione del mondo, da questo o da quel dettaglio, da quel modo di dire o da quella creatura sconosciuta.

Raramente si è visto un film così piccolo pensato così in grande, una storia di genitori e figli raccontata con questa ambizione, le emozioni di tutti i giorni messe in scena su una scala così grande. Ed è anche difficile trovare un autore capace di trovare sempre il punto perfetto per piazzare la cinepresa: che meraviglia quando si ragione così tanto a partire dalle immagini per dire tutto ciò che c’è da dire su un personaggio, su una scena, su un mondo.
Quindi certo che c’è quel finale: La via dell’acqua non ha inizio e non ha fine, e la storia (ri)comincia adesso. Ora viene il bello, sembra dirci James Cameron: perché la nuova opera di questo regista, di questo straordinario autore, di questo visionario creatore di mondi e di immaginari, oltre che un film è anche e soprattutto un’esperienza. Che, nel bene e nel male, potrebbe aver appena mostrato che cosa diventerà il cinema nell’imminente futuro.
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