
Bardo – La cronaca falsa di alcune verità: recensione del nuovo film Netflix di Alejandro G. Inarritu che non convince
Il regista di Babel e Birdman torna a sette anni da The Revenant esordendo su Netflix, ma lo fa con il lavoro peggiore della sua carriera.
Già un film il cui sottotitolo è ‘Cronaca falsa di alcune verità‘ è chiaro che voglia prenderti per il culo: ma Alejandro Gonzalez Iñarritu, dei famosi e iconici ‘tre amigos’ (quei tre amici messicani pazzi che insieme hanno conquistato Hollywood in pochi anni – gli altri due sono Guillermo Del Toro e Alfonso Cuarón) è sempre stato quello col senso dell’umorismo più pseudo-hipster, quello più piacione, diciamo pure paraculo, quello il cui obiettivo, in un modo o nell’altro, era dichiaratamente quello di farsi accettare: e non importa che il suo cinema sia il meno intenso dei tre, il meno compiuto, il meno risolto, perché alla fine della fiera (delle illusioni) è riuscito, con le sue cronache false, a conquistare Hollywood (i due Oscar consecutivi per la miglior regia parlano per lui: l’unico nella storia, insieme a Ford e Mankiewicz, a vincere due statuette back-to-back).
Però il suo stucchevole ed esasperante Bardo – termine che indica, per i buddisti, quello stato intermedio tra la vita e la morte, quel vero-falso che il film cerca di ‘cronacare’, e che è infarcito di scopiazzature da Roma dell’amico e collega Cuarón, col solo risultato di allargare l’abisso preesistente tra i due – ci arriva (tramite Netflix, quello stato intermedio tra cinema e televisione che è l’unico spazio digitale in cui un film del genere oggi può non-nascere: e, per inciso, siete ancora in tempo per recuperare la recensione di Pinocchio di Guillermo Del Toro e cambiare il film da vedere questa sera) come un inerme e lamentoso 8 e mezzo come sempre stilisticamente impeccabile ma intellettualmente risibile che dimostra tutta l’incapacità di un autore molto volonteroso quando si tratta di riflettere sul mezzo-cinema, ma sempre incapace di affondare davvero nelle proprie tesi universali restando bloccato su quella superficie individuale oltre la quale il suo scrutare non riesce mai a spingersi.

Le cose con Iñarritu magari cambiano quando il regista si dedica anima e corpo (o Carne y Arena) al tentativo di ridurre l’immagine a movimento puro: The Revenant si, ma soprattutto Birdman, nel quale il pianosequenza, che al cinema è la figura retorica per il tempo-vero, era volutamente ritoccato per mettere in scena l’assottigliamento del confine tra il vero e l’inventato, tra l’autentico e il falso. Anche Bardo è una storia di confini (e di confine) che spariscono, che si mescolano, ma fin troppo chiusa nelle lande dell’onanismo per venire a noi con un senso compiuto da riferirci, da illuminarci, e la fantasmagoria allestita da Iñarritu per la sua nuova oper(ett)a è talmente ridonante e ipertrofizzata e autoindulgente da respingere chi guarda, invece che assorbirlo nel suo mondo.
Ma c’è una nota positiva: a Venezia scorso il film fu presentato in un montaggio da tre ore, però capita l’antifona (se la gente scappa dalla sala in cerca di flebo di caffeina, chiunque si renderebbe conto che c’è qualcosa che non va) il regista è corso ai ripari e la versione disponibile in streaming riduce il supplizio a 160 minuti. Che sono comunque un’eternità, in base agli standard di Einstein, ma almeno c’è il tasto pausa per quando avrete bisogno di prendere fiato.
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