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Blonde: la recensione del film di Andrew Dominik con Ana de Armas

Andrew Dominik firma un capolavoro epocale, che sfrutta il corpo di Ana de Armas per raccontare la (pseudo)storia Marilyn Monroe e spiegarci la forza del cinema.

Andrew Dominik firma un capolavoro epocale, che sfrutta il corpo di Ana de Armas per raccontare la (pseudo)storia Marilyn Monroe e spiegarci la forza del cinema.

Una storia di fantasmi, una delle più grandi storie di fantasmi di sempre: ecco che c’è, davvero, in fondo, sotto sotto, dentro Blonde, il nuovo film Netflix scritto e diretto da Andrew Dominik con protagonista Ana de Armas e dedicato alla (finta) biografia di Marilyn Monroe: una storia di fantasmi, di stelle morenti e morte, di neonati nascenti e mai nati, di cose che non ci sono, di immagini che si dissolvono, di immaginari che scompaiono. Il cupio dissolvi di un’epoca, che ci illudiamo soltanto sia rimasta nel passato.

In un troppo di immagini, in un’orgia di vedere, di guardare, di fotografare, di sguardi, di barocchismi, di gusti pessimi ma consapevolmente respingenti, disgustosi a volte, inquietanti spessissimo, Dominik – autore pensatore distruttore eversore assassino di immaginari e di generi, uno che ai suoi film pensa e lavora e lavora e pensa per anni e che qui, dopo il prison-movie di Chopper, il western di L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, il gangster-movie di Killing them softly e la serie tv Mindhunter in collaborazione con David Fincher, passa sopra asfalta scardina sconfigura e riassembla il biopic tutto, come genere e come concezione. Lo fa servendosi dell’interpretazione uber-premi di Ana de Armas (nominata ai Golden Globes, unico riconoscimento al quale può sperare di ambito un’opera che i riconoscimenti proprio non li vuole)per raccontare una Marilyn Monroe – LA Marilyn Monroe di Joyce Carol Oates, autrice del romanzo finto-biografico di cui il film è adattamento, ma anche DELLA Marilyn Monroe del secolo XX e della SUA iconografia immortale, quella scolpita dalle riviste e dai manifesti e dai film di Hollywood – una Marilyn Monroe, dicevamo, che non esiste, che è già morta, che non c’è. Che sta andando. Che va. Che fluttua nello schermo. Che si dissolve. Un’immagine. Un fantasma.

Blonde recensione Ana de Armas Marilyn Monroe

Una Marilyn che ripete all’infinito che i suoi capelli sono tinti, che sono un non-colore, sono finti. Perché Marilyn tutta è finta, è un’immagine, è una fotografia (essa stessa non-generata da una fotografia, da un non-padre che è esso stesso un’immagine), è un abito prova costume indossato da qualcun altro che quel costume lo odia, che è costretto ad indossarlo. Un paradosso. Un cul-de-sac. La copia carbone di un sogno. Di un incubo.

Impossibile allora distinguere tra realtà e finzione. Tutto è vero e tutto è falso, tutto è falso e tutto è vero: e a Dominik non resta che gettarsi nel più totale dei caos, ci sguazza, non fa distinzioni e va per accumulo, distorce contorce strizza tutto, il colore e il bianco e il nero, le ottiche e i filtri, i particolari e le ellissi, i momenti cruciali e i vuoti, il mito e il de-mito, il cinema e le sue quinte, le forme e l’informe, il grande schermo e il piccolo schermo, la pellicola e Instagram, la veglia e il sogno, la storia e la Storia. La vita e la morte e la non-vita e la non-morte, che qui possono dialogare, comunicare, interagire. Anche nella musica, specialmente nella musica, ovviamente spettrale, ovviamente di Nick Cave (con brani inediti e con pezzi estratti dal capolavoro Ghosteen che – guarda caso – è un lamento funebre sulla morte dei figli e la cui realizzazione è stata – guarda caso – al centro del documentario di Andrew Dominik, This much I know to be true).

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E in questo Inland Empire monroeniano, lungo questa Mulholland Drive del biopic, attraverso la Strade Perdute andrewdominikiane, in questa maieutica delle immagini che è un flusso di (in)coscienza joyce(caroloates)iano che rigetta le forme convenzionali di narrazione e che stordisce, sbalordisce, annichilisce, gli uomini preferiscono davvero le bionde: le preferiscono per i loro scopi, per sfruttare, per evadere, per ispirarcisi, per stuprare. Qui non c’è spazio per il laccato e smaccato pseudo-filosofeggiare sui post-femminismi di Una donna promettente o Don’t worry darling, qui le darling farebbero bene a preoccuparsi, e tanto: Dominik, che ha due palle così e che come Cuaron, Scorsese e Fincher prima di lui ha evidentemente avuto carta bianca da Netflix (realizzando il primo film originale dello streamer vietato ai minori), in quest’epoca anti-maschilista e anti-patriarcato fa un film in tutto e per tutto maschilista, sfacciatamente maschilista, un film in cui il patriarcato stritola la protagonista e la prende a schiaffi in faccia.

Il risultato, ovviamente, è ben più impattante di tutti quei lavori che, negli ultimi anni, il maschilismo hanno voluto combatterlo tingendolo di rosa: Blonde il maschilismo imperante mortificante soffocante ce lo fa sentire addosso, ce lo vomita (letteralmente) addosso, ce lo infila nella gola, ce lo fa ingoiare. Non c’è più nemmeno lo spazio per il (finto) lieto fine da favola dark di Spencer: qui il lieto fine non può esserci perché l’occhio che uccide è sempre aperto, tutti sono colpevoli verso la protagonista (che non è Marilyn Monroe: Marilyn Monroe non esiste, è un’immagine) perché tutti la guardano. Tutti noi guardiamo, e in Blonde guardare è uccidere.

Ma si può uccidere davvero un fantasma?, un’immagine?, un’icona?; e l’icona per eccellenza?, e il cinema?

Voto: 5/5

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Matteo Regoli

critica i film, poi gli chiede scusa si occupa di cinema, e ne è costantemente occupato è convinto che nello schermo, a contare davvero, siano le immagini porta avanti con poca costanza Fatti di Cinema, blog personale

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