
Copenaghen Cowboy: la recensione della serie Netflix di Nicolas Winding Refn
Nicolas Winding Refn debutta su Netflix con una nuova serie originale, Copenaghen Cowboy: un’opera che è l’apoteosi del suo cinema.
Dopo aver colonizzato il catalogo di Prime Video con la temeraria Too old to die young, non solo la miglior serie televisiva della piattaforma di Amazon ma anche uno dei progetti portabandiera della nuova serialità autoriale (e con al suo interno una delle sequenze di inseguimento in auto più belle di tutti i tempi), con Copenaghen Cowboy il regista danese Nicolas Winding Refn si sposta su Netflix e anche in questo caso lascia il segno, con un’opera che è l’apoteosi del suo cinema.
Qualche giorno fa, parlando delle migliori serie tv del 2022, riflettevamo su quanto il panorama dello streaming abbia permesso agli autori di trovare una nuova terra fertile nella quale piantare quelle idee, quella creatività, quegli sfoghi artistici che, se non ti chiami James Cameron o se non ti chiami Steven Spielberg, difficilmente avrai modo di farti finanziare sul grande schermo. Non è certo cosa nuova – penso a Fassbinder, a Bergman, a Kieslowski con Decalogo, e ricordo con nostalgia e affetto la mia esperienza a Cannes 2017, quando David Lynch presentò la terza stagione di Twin Peaks, della quale ancora oggi si discute la natura (è una serie tv di 18 episodi o un film di 18 ore?) – ma da questo punto di vista la figura di Nicolas Winding Refn è una delle più emblematiche sulle quali riflettere.
Da Pusher a Copenaghen Cowboy
Attivo fin dal 1996, nella sua Copenaghen con la trilogia di Pusher, l’autore danese raggiunge la fama mondiale con Drive, col quale fonda un nuovo stile neon-glamour, lo rinnega totalmente con l’ermetico Solo dio perdona (capolavoro bistrattato e uno dei miei film preferiti di sempre) per poi dire addio al cinema nel 2015 con The Neon Demon: da allora nessun film ma ben due serie, la prima per Prime (nove episodi, la cui durata spesso superava l’ora e mezza, la media di un film ‘classico’), la seconda per Netflix (sei episodi, per un totale di 292 minuti); come se il cinema avesse detto già tutto e spettasse alla televisione, anzi allo streaming, proseguire il discorso.

E che discorsi che fa, Nicolas Winding Refn (o NWF, come ormai ama firmarsi): con Copenaghen Cowboy sembra voler ripensare la sua intera carriera per riplasmarla, l’ambientazione sembra subito un richiamo alle sue origini danese e alle origini del suo cinema, coi primi film ambientati a Copenaghen, e da quei film riprende molta camera a mano che ci avvicina ai suoi personaggi come davvero non accadeva da Pusher 3…ma più si va avanti più è chiaro che è tutta una finta, un atteggiamento, Copenaghen è solo nel titolo e la città vera e propria non appare mai, la storia prosegue al chiuso o al massimo nei pressi di specifiche location avvolte da esterni notturni che celano il panorama circostante, come se il resto del mondo non esistesse, come in un al di là di Lucio Fulci (“Siamo all’inferno” sarà una battuta ripetuta più di una volta). Non siamo nella Los Angeles di Drive o di Too old to die young (anche se, per certi versi, la mini-serie Netflix sembra ripartire dal finale di quella Prime Video): nonostante sia citata nel titolo, Copenaghen non è tanto un personaggio aggiunto quanto una realtà a sé.

Del resto l’espressionismo refniano è sempre stato volto ad ‘astrarre’ le storie e i personaggi dei suoi film per creare un mondo altro che è tutto NWR, che è solo NWR, un incrocio tra gli onirismi di David Lynch e la crudezza improvvisa di Takeshi Kitano, privata però di quell’ironia poetica con cui il maestro giapponese impreziosisce i suoi lavori. Refn, invece, non cerca di impreziosire ma di impressionare: i suoi motivi da exploitation sono infusi in parti uguali di realismo e allegoria, di cinema di serie b e installazione artistica, di videoclip e cromatismi alla Hammer Films al punto in cui Copenaghen Cowboy è insieme tutto e niente, sangue e spirito, corpo e mente, viaggio e stasi: il movimento è perenne ma è implacabilmente statico, è un movimento dentro le immagini che le annulla e le esalta insieme, è un movimento verso il cinema (il suo stesso cinema, che Refn sembra voler ripercorrere) e lontano da esso. La crudezza è vera, ogni pugno pesa, ogni osso spezzato fa male.
Mani avanti: il pubblico generalista se ne guardi bene, perché sarà quasi impossibile andare oltre nella visione, non dico del primo episodio, ma proprio della prima mezz’ora, se non si sa verso cosa si sta andando incontro. Ecco che cosa significa guardare Copenaghen Cowboy: è l’esperienza televisiva più fisica che si possa fare oggi, a parte essere colpiti in testa da un tv.
Lascia un commento