
Decision to leave: la recensione del noir di Park Chan-wook
Il maestro sud-coreano Park Chan-wook torna alla regia con il noir Decision to leave, e segna il 2022 con il miglior film della sua carriera.
C’è un’idea di cinema colossale all’interno di Decision to leave, nuovo film diretto da Park Chan-wook che torna a ben sei anni di distanza dal precedente glorioso lungometraggio The Handmaiden e a quattro dalla gigantesca mini-serie televisiva The Little Drummer Girl: lo sguardo come estensione del fisico, della materia, il vedere come prossimità, vicinanza, intimità.
Nella storia neo-noir di un detective insonne che si invaghisce – ricambiato – della donna sulla quale sta indagando, sospettata di aver ucciso il marito, l’autore di Oldboy deforma i generi appoggiandosi comodamente sul melò, rinviando quanto più possibile il mystery, nascondendo la detection sotto i sentimenti (al punto che potremmo parlare di melo-noir) ma soprattutto deforma lo sguardo, riducendo le distanze e abbattendo lo spazio che separa i corpi: ciò che viene visto è a portata di mano, o meglio attira a sé, cattura, blocca, spostando il confronto in una realtà creata dal vedere.

E’ il concetto opposto sul quale si fondava La finestra sul cortile di Hitchcock (nel quale ciò che viene visto è lontanissimo e irraggiungibile, e quindi portatore di suspense perché fuori dal controllo di chi guarda: Hitchcock che, in questo film costruito sul modello di Vertigo, torna prepotente) e anche il rovescio della medaglia di The Batman (il cui sguardo del protagonista oppresso opprime anche il nostro modo di guardare) e non è un caso che il film, la cui co-protagonista abita in un appartamento pieno di onde sulla carta da parati, vada a chiudersi in riva al mare e su una situazione resa irrisolvibile proprio dall’incapacità di vedere.
In questo senso è quindi da bacchettare l’adattamento italiano del titolo (La donna del mistero, prossimamente nelle sale con Lucky Red e BiM Distribuzione) in quanto Park Chan-wook non sta facendo né Memorie di un assassino né Burning, i massimi esempi del neo-noir sud-coreano degli amici, connazionali e colleghi Bong Joon-ho e Lee Chang-dong e si interessa davvero poco ai meccanismi dell’indagine: come sempre il titolo originale Decision to leave, ben più evocativo ed evidentemente molto più accostabile ad un romanzo rosa che a un thriller investigativo (siamo dalla parte opposta della tavola periodica di The Stranger), riassume e inquadra al meglio l’opera del regista e le sue intenzioni, totalmente sentimentali, melodrammatiche, tragiche.
Storia a due di dualismi e connessioni (due i protagonisti, due le lingue attraverso le quali si comunica, due gli omicidi e perfino due i blocchi narrativi, quando a un certo punto il film sembra stopparsi e ricominciare dall’inizio), di trompe-l’œil visivi e tematici, di decostruzioni e di vertigini.
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