
Io capitano, recensione del nuovo film di Matteo Garrone
Quattro anni e una pandemia dopo Pinocchio, sua personale rivisitazione del celebre romanzo per ragazzi ‘Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino’ di Carlo Collodi (che ha battuto sul tempo il Pinocchio di Guillermo Del Toro e che poteva passare per uno spin-off ambientato nel mondo fantasy-italico de Il racconto dei racconti, uscito invece nel 2015), Matteo Garrone torna al cinema (ed esordisce in concorso al Festival di Venezia) con il suo nuovo, attesissimo film Io capitano.
Il film racconta la storia di due giovani, Seydou e Moussa (interpretati da Seydou Sarr e Moustapha Fall, attori non professionisti come da grande tradizione del cinema garroniano: Garrone è senza dubbio alcuno tra i più bravi al mondo a plasmare i propri personaggi partendo da volti e corpi amatoriali), col primo che si fa convincere dal secondo, suo cugino, a partire da Dakar, in Senegal, e affrontare così un lungo viaggio per raggiungere l’Europa: la loro diventa un’Eneide nel mondo contemporaneo, che li porta ad attraversare il deserto (c’è una scena fenomenale nel Sahara con le dune che sono già onde, il cassone di un furgone già il barchino, e chi cade nelle sabbie è perduto per sempre) e le mille insidie del mondo, i pericoli del mare aperto e lo stesso essere umano, pieno di ambiguità e ipocrisie, di gentilezze e paure, di meschinità e cuore.
Io capitano è un film sugli immigrati, quindi, una versione seria di Tolo Tolo di Checco Zalone, un film di presa di posizione, un film schierato? Non esattamente. Anzi, per come si racconta, dall’inizio con un Senegal da favola alla Libia infernale e ‘in Europa non è mica come qui, ci sono i morti per strada e la gente muore di fame, non partite, restate a casa’, sembra non avere alcune fine politico (e sia a Sinistra che a Destra, volendoci addentrare in territori che, ripetiamo, al film non interessano, sia a Sinistra che a Destra potrebbero trovare elementi per fare acqua al proprio mulino). Ma è soprattutto il modo in cui Garrone guarda all’avventura vissuta da Seydou a fare tutta la differenza del mondo.
Io capitano: il cinema di Matteo Garrone
Tra Walkabout di Nicolas Roeg e Re della terra selvaggia di Benh Zeitlin, in Io capitano è magistrale il modo in cui Garrone mescola la cruda realtà della tratta degli esseri umani agli archetipi del film d’avventura, insieme a un realismo magico a tratti onirico-felliniano così personale da svicolare dal calligrafismo dei film di Paolo Sorrentino o dal puerile Inarritu del patetico Bardo (qui la nostra recensione di Bardo).
Il modello narratologico del monomito di Joseph Campbell, il cosiddetto ‘viaggio dell’eroe’ sul quale si è costruito il grande cinema popolare (da Star Wars a Il Signore degli Anelli) e basato sugli archetipi junghiani e dedicato alla totale identificazione tra lo spettatore e il protagonista della storia che si sta raccontando, è perfetto per l(a dis)avventura di Seydou, ma soprattutto per il cinema di Matteo Garrone, così dentro le storie che mette in scena, così presente, così tattile, così fisico.

É un altro film sul tempo – dopo Oppenheimer di Christopher Nolan – nel quale i personaggi gridano in continuazione di non avere tempo da perdere, un film nel quale però Garrone evita le banalità del male e, incredibilmente, non scade mai nel didascalico o nel banale, né nei facili pietismi nei quali la stragrande maggioranza dei registi suoi ‘colleghi’ (tra virgolette perché dovrebbe essere chiaro a tutti ormai che questo signore qui è di un’altra categoria) sarebbe comicamente inciampata.
La cosa più interessante è come Io capitano tratteggi un’evoluzione simbolica e tematica partita con Pinocchio, non tanto per gli elementi onirici (pochi ma fondamentali, incluso un mitico Sciamano con le sue profezie) quanto per la leggerezza infantile, lo sguardo innocente, e la maturazione di quello sguardo via via che la storia avanza e la persona che sta guardando cresce con lei in base a ciò cui assiste, a ciò che vede. Un film ancora una volta personale, quindi, ma più ‘per tutti’ del solito. Vincerà a Venezia? Se non vince complimenti a chi gli soffierà questo onore. Quello che è certo è che, con quella scena finale, Garrone si siede al fianco di Tsai Ming-liang nel pantheon dei più emozionanti primi piani conclusivi della storia del cinema.
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