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L’Ultimo dei Mohicani: il cinema d’avventura definitivo

Lontano dalle sue tipiche atmosfere crime, con L'ultimo dei Mohicani Michael Mann realizza il film d'avventura definitivo.

Dopo aver segnato il look, lo sguardo e le atmosfere degli anni ’80 tanto sul grande schermo (Strade violente, Manhunter) quanto sul piccolo (Miami Vice, Crime Story), Michael Mann entra negli anni ’90 con L’ultimo dei Mohicani, drastico cambio di rotta per l’autore che porta il suo cinema nel 1757 (la prima cosa che il film dice di sé, tramite una didascalia) durante la cosiddetta ‘guerra dei sette anni’ tra francesi e inglesi e quindi lontanissimo dai suoi argomenti, o almeno sulla carta.

Basato sul celebre romanzo di James Fenimore Cooper – un classico della letteratura americana che all’epoca era già arrivato parecchie volte al cinema (a partire dal 1911) – L’ultimo dei Mohicani diventa fin da subito un film di Michael Mann, quando fa del protagonista (interpretato da Daniel Day-Lewis) un tipico personaggio manniano: ribelle che si agita tra il giusto e lo sbagliato, guerriero senza colori, esponente di una tribù che non ha futuro e quindi emblema di un mondo e di un modo di pensare la vita e concepire l’esistenza ormai al tramonto. Quando poi l’obiettivo diventa il salvataggio delle figlie di un comandante inglese, rapite da una tribù indiana alleata coi francesi, e la speranza di un amore corrisposto dalla maggiore delle due sorelle (Madeleine Stowe), ecco che Michael Mann posiziona tutti gli elementi del cinema epico per portarli dove vuole lui.

L’ultimo dei Mohicani, epicità e romance

L’autore delle metropoli, dei taxi notturni (Collateral) e dei neon e delle luci riflesse sulle carrozzerie lucide delle auto e dei detective dannati (Heat, Miami Vice), si trasferisce tra i monti e nei boschi ma lo fa con coerenza, cambiando approccio e rinunciando alla coolness della città per abbracciare il romanticismo tedesco, quello della gloria della natura istintiva e selvaggia.

Tra sequenze di caccia e uccisioni brutali, senza enfatizzazioni o ridondanze,
Michael Mann si riappropria degli spazi del cinema epico americano, gli stessi che successivamente avrebbe condensato nelle mappe geografiche delle metropoli americane contemporanee (ancora Heat, Collateral, Miami Vice) e non (Nemico pubblico, Blackhat). E accade, questa riappropriazione, sempre attraverso gli uomini, che come sempre nel cinema manniano sono professionisti del proprio mestiere: tra ladri, poliziotti, giornalisti, investigatori, serial killer, sportivi, killer a pagamento, trafficanti, hacker e così via, con L’ultimo dei Mohicani Michael Mann si lascia attrarre dai cacciatori e dalla caccia, e anche qui, come in tutti gli altri capitoli della filmografia dell’autore, sono più i gesti a parlare che le parole.

Le parole servono per sottolineare un momento decisivo, per sancirlo, ma sono i movimenti, gli sguardi e le espressioni che raccontano davvero i personaggi, che ci dicono di loro tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere per conoscerli, cosa stanno pensando o che cosa vorrebbero dire realmente quando le circostanze gli impongono dire qualcos’altro (guardate la scena introduttiva della protagonista femminile: qualche secondo di muto imbarazzo per assorbire la proposta di matrimonio a lei visibilmente sgradita, e poi: ‘I don’t know what to say…’). Questo perché in Michael Mann sono le immagini a parlare, e il suo cinema non può prescindere da esse: basti guardare il climax finale, quando oltre cinque minuti di ‘azione muta’ (cinque minuti perfetti e tra le sequenze più esaltanti mai create), un’azione muta mossa soltanto dai gesti dei corpi e dagli sguardi della cinepresa e degli attori e dalla mitica colonna sonora di Trevor Jones e Randy Edelman, portano il testo filmico su un piano sempre più alto.

Ed è proprio per questo suo voler far parlare le immagini, queste immagini gloriose di questi spazi immensi, entro i quali si muovono uomini così piccoli ma dai sentimenti agitatissimi e incontenibili, che L’ultimo dei Mohicani ci arriva come il film d’avventura definitivo sull’uomo e il suo posto nel mondo.

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Matteo Regoli

critica i film, poi gli chiede scusa si occupa di cinema, e ne è costantemente occupato è convinto che nello schermo, a contare davvero, siano le immagini porta avanti con poca costanza Fatti di Cinema, blog personale

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