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The Mother con Jennifer Lopez e gli altri: Nuovi film in tre righe EP9

The Mother con Jennifer Lopez e non solo: la recensione in tre righe dei nuovi film da vedere al cinema, in streaming e in home-video.

Al cinema e sulle piattaforme di streaming potete trovare tantissimi film più o meno interessanti. Ogni settimana ne selezioneremo alcuni per scriverci sopra una recensione molto breve con tono ironico e scanzonato: questa settimana è il turno di The Mother con Jennifer Lopez, The Covenant di Guy Ritchie, Ritorno a Seoul di Davy Chou, Bob Dylan: Odds & Ends di John Hillcoat, Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi e Toro Scatenato. Un raccoglitore utile e pratico con tanto di citazioni che rimarranno impresse nella memoria di Google. Se vi siete persi l’episodio otto, potete recuperarlo qui.

The Mother di Niki Caro – Recensione

Il film – perfetto per l’imminente Festa della Mamma, specialmente se avete una mamma irrefrenabile – è molto più bello di quanto mi aspettassi: scritto da Misha Green, autrice di Lovecraft Country, dopo appena cinque minuti alza tantissimo la posta in gioco e, sarà che non avevo visto mezzo trailer e a naso e solo per pregiudizio mi aspettavo pochissimo, devo ammettere di essere rimasto piacevolmente sorpreso, almeno per il target di riferimento.

Jlo tra una boiata e l’altra qualche buona cosa la tira fuori, questa è tra le più buone: un’altra vittoria ‘in famiglia’, dopo il bellissimo Air di Ben Affleck.

The Covenant di Guy Ritchie – Recensione

[lost in translation, anzi lost in interpretation]
che poi non si interpretano solo le lingue o le espressioni o i sentimenti, ma anche i generi cinematografici: come fa ad esempio questo film qui, che dura due ore e che a cinquanta minuti dall’inizio, proprio quando cominci a chiederti come farà ad arrivare fino alla fine sempre attraversando lo stesso registro e lo stesso genere, all’improvviso cambia totalmente, diventa un altro film, un’altra cosa, passa ad un altro genere, o reinterpreta quello che stava dicendo, lo traduce con un accento nuovo, abbraccia il diverso.

Non ho ancora capito cosa voglia fare Guy Ritchie da grande: praticamente fa un film alla settimana (ne sta già girando un altro, con Henry Cavill) e quando gli va bene tira fuori rimasugli del suo primo cinema (The Gentleman), quando gli va male gratta il fondo del barile e non trova nulla (Operation Fortune): però si inizia a intravedere anche una translation, che guarda caso può voler dire anche ‘traslazione’, e qui insieme a Wrath of Man raggiunge le vette massime della sua carriera.

Qui lo dico e qui lo nego, mi sono commosso con un film di Guy Ritchie.

Ritorno a Seoul di Davy Chou – Recensione

Storie di identità scisse, di divisioni, di ricerche (ritorni), di protagoniste difficili e dure per una volta – finalmente, vivaddio – pensate non per piacere ed empatizzare ma per respingere: quel broncio corrugato che si intravede qui sotto nell’anteprima del trailer, più corrugato di quello già splendido di Florence Pugh in Midsommar, per certi versi già dice tutto

In sala dall’11 maggio con I Wonder Pictures.

Bob Dylan: Odds & Ends di John Hillcoat – Recensione

Quando si parla di Bob Dylan e di documentari si parla di grandissimi nomi come Scorsese o Pennebaker e di tutta una serie di film leggendari, ma John Hillcoat ha già ampiamente dimostrato di essere un grande e l’Australia – soprattutto con le opere di Andrew Dominik su e con Nick Cave – negli ultimi anni ha detto la sua anche nel campo del cinema musicale.

Questo Odds & Ends però è molto più canonico e ‘televisivo’ rispetto all’approccio di capolavori come One more time with feeling / This much I know to be true, o a quello da flusso di coscienza di Todd Haynes con The Velvet Underground, senza scomodare il leggendario Rolling Thunder Revue (disponibile su Netflix), che dimostra quanto il cinema possa inventare anche con un genere – il documentario – che teoricamente prevede un rapporto molto stretto con la realtà.

Mi aspettavo qualcosa di più da Hillcoat, ma il piacere dei contenuti a volte può bastare.

Toro Scatenato di Martin Scorsese – Recensione

Tornato in sala con Lucky Red in un nuovo restauro in 4K, Toro Scatenato è forse il film in assoluto più personale di Martin Scorsese (forse insieme a Silence, che sarebbe arrivato moltissimi anni dopo), che segnò allora la quarta collaborazione – oggi salite a dieci contando anche il prossimo Killers of the Flower Moon: Mean Streets, Taxi Driver, New York New York, Toro Scatenato, The King of Comedy, Quei bravi ragazzi, Cape Fear, Casino, The Irishman e Killers – tra il regista e Robert De Niro. Quest’ultimo in un ruolo ampiamente riconosciuto come una delle prove attoriali migliori di sempre (che gli valse il suo secondo Oscar) per un film crudissimo che ebbe una cruda genesi (l’attore convinse il regista a farlo, dopo il flop di New York New York, come cura dalla depressione e dalla dipendenza dalla cocaina) e un crudo trionfo (la clamorosa snobbatura agli Oscar 1982.

Tuttavia, secondo il mito, la storica casa di produzione United Artist stava attraversando un periodo molto difficile sia a livello di prestigio che soprattutto economico [per via del flop storico de I cancelli del cielo di Michael Cimino, che è il mio film preferito e che quindi volevo citare per forza] e che per questo motivo non organizzò per Toro Scatenato una cosiddetta ‘campagna promozionale da Oscar’ adeguata forse il film di Scorsese avrebbe meritato).

Una storia di luce e buio e di sofferenza e speranza dalla sceneggiatura di Paul Schrader, con i toni espressionistici della fotografia in bianco e nero di Michael Chapman (che aveva curato anche la fotografia di Taxi Driver) e il montaggio furioso e ossessivo di Thelma Schoonmaker (altra storica collaboratrice di Scorsese che ha montato praticamente tutti i suoi film), una storia attraverso la quale il regista mise in scena – anzi mette in scena, perché il film è ancora attualissimo – non solo le sfide sportive, che in oltre due ore di narrazione corrispondono solo ad una minima parte del film, e che quando arrivano fungono quasi da intermezzi surreali, ma soprattutto quelle emotive, le battaglie che Jake LaMotta combatté con sé stesso e con le persone che più gli stavano vicine.

Gli ultimi giorni dell’umanità di Enrico Ghezzi – Recensione

Visto allo scorso Festival di Venezia, arriva nei cinema una delle più grandi sinfonie visive del decennio, un Fuori Orario fuori scala (‘Fuori orario’ è, coincidenza, non solo il titolo del noto programma tv creato dal mitico critico cinematografico, ma anche un film di Scorsese: fa sorridere pensare ai due film che si fanno ciao con la manina dai rispettivi cartelloni nei cinema italiani).

Autobiografico e decisamente elitario, un film per molti versi godardiano ma anche tremendamente dolce.

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Matteo Regoli

critica i film, poi gli chiede scusa si occupa di cinema, e ne è costantemente occupato è convinto che nello schermo, a contare davvero, siano le immagini porta avanti con poca costanza Fatti di Cinema, blog personale

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