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Pinocchio di Guillermo Del Toro – La recensione

Guillermo Del Toro diventa il burattinaio di Pinocchio, e rivoluziona tutto: fate largo ad un capolavoro assoluto, il miglior film animato dai tempi di Wall-E e Up.

Chissà cosa penserà Robert Zemeckis, e per estensione la Disney tutta, di fronte alla nuova versione di Pinocchio diretta da Guillermo Del Toro: che, tanto per mettere subito in chiaro le cose, non è solo un capolavoro assoluto, ma proprio un miracolo.

Di quel remake stoccafisso del Classico Animato di Walt Disney, uscito solo qualche mese fa su Disney Plus, non è rimasto praticamente nulla se non gli ossessivi richiami della Disney a sé stessa, e la convinzione-illusione tutta hollywoodiana che inserendo una nuova burattina afroamericana e spingendo Pinocchio a rimanere un bambino di legno in metafora ‘woke’ di auto-accettazione e celebrazione dei difetti del proprio corpo: Del Toro, che invece quel Pinocchio originale del 1940 lo ha amato per tutta la vita (l’autore messicano lo ha più volte nominato come uno dei suoi film preferiti: andatevi a leggere la commovente intervista in cui ricorda le volte in cui lo vedeva con sua madre, scomparsa di recente e alla quale questo suo primo film d’animazione è dedicato), rivista il mondo di Carlo Collodi e la fa totalmente suo, lo fa totalmente nuovo, come se la storia del cinema non fosse satura di adattamenti pinocchiani.

Ecco Pinocchio di Guillermo Del Toro, allora, che a guardarlo così com’è sembra anche l’unico possibile: un film che stabilisce la potenza della visione di un autore nei confronti della storia, di quanto poco importi la vicenda raccontata se la maniera in cui viene raccontata è piena di fantasia, idee, inventiva, cinema. Completamente fuori dagli schemi, l’opera risulta sempre originale scena dopo scena nonostante si rifaccia ad un’opera di fine 1800: guardate la scena della nascita di Pinocchio, che con quei fulmini e saette e quelle ombre sulle pareti e quei colpi di martello e quei chiodi conficcati nel legno sembra uscita dal laboratorio di Frankenstein, guardate la reazione di Geppetto quando il burattino disarticolato, pestifero e ‘demoniaco’ prende vita, guardate come il mostruoso diventa piano piano attraente e tenero, guardate come la creatività riesca a nascondere il già visto.

L’idea di ambientare la storia nell’Italia fascista cambia tutto, Pinocchio impara cos’è la guerra e cos’è la morte e soprattutto cos’è la vita, e le sue marachelle da bimbo disobbediente assumono i tratti di un carattere sovversivo, ribelle, scomodo: è un Pinocchio nato da un Geppetto arrabbiato, non un Geppetto disneyniano, un Geppetto a lutto e dipendente dall’alcool che dovrà imparare ad amare di nuovo compiendo un’evoluzione che va di pari passo a quella del suo non-figlio. Pinocchio non vivo come simulacro di un figlio vero morto, eppure lui è pieno di energia, pieno di vita mentre i bimbi degli adulti del regime (come Lucignolo) sembrano già morti dentro.

E il punto-paradosso è proprio questo: sotto la dittatura fascista tutti gli abitanti del mondo di Del Toro (che da messicano di dittatura ne sa qualcosa, e che la dittatura l’ha raccontata in alcuni dei suoi titoli più famosi, come La spina del diavolo e Il labirinto del fauno) sembrano dei sudditi, degli schiavi, dei burattini coi fili governati dal ‘gran’ burattinaio Mussolini; è Pinocchio, il ribelle, l’incontrollabile, l’esuberante Pinocchio l’unico davvero libero. La sua gentile e innocente rivoluzione è forte il doppio perché involontaria, naturale: è un po’ l’atto compiuto dal film, che evolve una storia vecchia e raccontata decine di volte, la cambia, la rivoluziona.

Pensate: si mormora che Netflix consideri così scontata la vittoria di questo film all’Oscar dell’animazione, che punterà addirittura a vincere Best Picture, il premio principale dell’anno. Sarebbe la prima volta in assoluto per un film animato (solo tre film sono stati nominati nel corso della storia dell’Academy, La bella e la bestia, Up e Toy Story 3) ma sapete che c’è? Un titolo così libero, così innovativo, così coraggioso, così rivoluzionario, forse se lo merita pure. Del resto stiamo parlando del miglior film d’animazione dai tempi di Wall-E e Up.

Voto: 5/5

Matteo Regoli

critica i film, poi gli chiede scusa si occupa di cinema, e ne è costantemente occupato è convinto che nello schermo, a contare davvero, siano le immagini porta avanti con poca costanza Fatti di Cinema, blog personale

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