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Edward Yang Taipei Story

Edward Yang: Taipei Story, le due anime di Taiwan

Oggi parliamo di Taipei Story, uno dei capolavori del taiwanese Edward Yang: l'individuo, il paesaggio urbano, la società che avanza.

Il maestro taiwanese Edward Yang (proprio recentemente ritiratosi dalle scene per problemi di salute) avrebbe firmato il miglior film degli anni ’90 (A brighter summer day) e successivamente pure quello degli anni 2000 (Yi Yi…) ma già nel 1985 riuscì a dipingere uno spaccato della modernità in chiave alienante e sospesa con il capolavoro Taipei Story.

La Taipei di Edward Yang è una città diversamente dolente rispetto a quel Città dolente di Hou Hsiao-hsien che avrebbe consacrato il cinema taiwanese appena quattro anni dopo col Leone d’oro a Venezia (Hou in Taipei Story è co-sceneggiatore e co-protagonista come attore), travolta dal boom economico, spaccata tra oriente e occidente. Un corpo riempito da due anime che stanno strette e per questo privo di un’identità precisa, anonimo, indefinito e uguale a tanti altri (come uguali vengono bollati i palazzi che costituiscono lo skyline della metropoli, quando uno dei personaggi – architetto – ammetterà di non essere in grado di riconoscere quelli costruiti da lui e quelli eretti da altri).

Edward Yang: fermare il tempo

Prima parte di un dittico urbano che prosegue con il successivo capolavoro The Terrorizers, Tapey Story porta avanti un discorso molto michelangeloantonioniano sul rapporto tra l’individuo e il paesaggio. Il primo è soggiogato dal secondo e incapace di mutare alla stessa velocità, bloccato nel tentativo di tenere il passo con una società che avanza e che nel suo ridefinirsi lo lascia indietro.

Emerge, dai modi della messa in scena, la ricerca da parte dell’autore di cristallizzare il tempo, di ritagliare i suoi personaggi in uno spazio predefinito e mosso da un immobilismo glaciale – come esclamano i numerosi quadri-nei-quadri che mostrano i personaggi all’interno di cornici ambientali o architettoniche, vere e proprie gabbie scenografiche – che ne sottolinea la distanza emozionale, l’aridità spirituale e il disagio interno.

Ma è un disagio che, al contrario di quanto accade con Antonioni, non rimane lontano bensì, seppur silente, vibra sotto pelle ed emerge oltre le gabbie della mise-en-scène, oltre l’impassibilità dei volti, oltre i palazzi grigi di Taipei, un urlo muto che percorre immagini e sguardi caricandoli di un’emozione privata e sommessa ma sempre evidente. Per altre letture dal cinema taiwanese, riscoprite Millennium Mambo di Hou Hsiao-hsien.

Matteo Regoli

critica i film, poi gli chiede scusa si occupa di cinema, e ne è costantemente occupato è convinto che nello schermo, a contare davvero, siano le immagini porta avanti con poca costanza Fatti di Cinema, blog personale

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