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Takeshi Kitano

Takeshi Kitano: i grandi maestri del Cinema Giapponese

Oggi parliamo di Takeshi Kitano, maestro del cinema giapponese che ha influenzato anche l'Occidente, da Quentin Tarantino a Nicolas W Refn

Nella personale Top 10 dedicata ai registi preferiti di chi scrive, insieme a Michael Mann (a proposito di Michael Mann e Giappone, non perdetevi la nostra recensione di Tokyo Vice), Michael Cimino, Steven Spielberg, Paul Thomas Anderson, Hou Hsiao-hsien, Edward Yang, Abbas Kiarostami e Francis Ford Coppola, una delle primissime posizioni è occupata saldamente da Takeshi Kitano.

Per i tanti che hanno sentito parlare di lui grazie al mitico programma televisivo Takeshi’s Castle o per i pochi che lo conoscono solo grazie ai suoi romanzi, basti dire che Takeshi Kitano è il regista più folgorante, completo e complesso nato nelle sale cinematografiche dagli anni Novanta ad oggi: dopo di lui potremmo citare solo pochissimi nomi così grandi e importanti o che lo sarebbero diventati nel tempo, i Quentin Tarantino e i Paul Thomas Anderson e poi gli altri due o tre al massimo; eppure con l’autore giapponese bisognerebbe fare un discorso totalmente diverso.

Un autore a trecentosessanta gradi

Un talento rarissimo per la storia del cinema e un autore totale, già completamente fatto e finito fin dal film d’esordio Violent Cop sia come attore che come sceneggiatore/regista, può vantare un impianto figurativo sia immediatamente riconoscibile (attenzione: non costruito nell’arco di un’intera carriera, ma sfornato bello e pronto fin dalle primissime scene del primo lungometraggio) sia assolutamente estraniante.

Nel suo essere mix da pura arte non compromissoria a metà tra Jean-Pierre Melville e Kinji Fukasaku (che non a caso fu il primo regista associato a Violent Cop), si discosta dagli altri due grandi cineasti degli anni ’90 citati in apertura in quanto mai teoretico e riverente nei confronti del proprio genere (come Tarantino) e troppo anarchico per essere considerato un neo-classico (come invece neo-classico è Paul T Anderson).

Takeshi Kitano 1

Quello di Takeshi Kitano è un cinema primigenio e immacolato fatto di immagini e scene, di emozioni e impressioni. Lo è in ogni singolo film, in particolar modo in quelli più riusciti in assoluto che sono anche fra i più grandi lungometraggi della storia del cinema. Già il titolo in lingua originale di Violent Cop parla chiaro: nelle sale giapponesi il film d’esordio uscì come ‘Sono otoko, kyōbō ni tsuki’ che sta per ‘Attenzione, quest’uomo è estremamente violento’.

Eppure a guardar bene il cinema di Kitano non è estremamente violento, casomai è estremo in ogni senso possibile: lo è nello stile di recitazione tra l’impassibile e il macchiettistico, tra la caricatura e l’esasperazione degli archetipi, lo è nello stile di ripresa immoto che quasi costringe la camera alla stasi, lo è nel montaggio brusco e improvviso,(spesso curato da Kitano in persona) ma anche nel bilanciamento narrativo in grado di trovare umorismo e dolcezza in mezzo ad una visione del mondo cupissima e brutale, violenta appunto.

Takeshi Kitano, da comico a regista

Takeshi Kitano è estremo anche nelle origini: nasce come comico da stand-up nei locali di Asakusa, un quartiere di Tokyo (la storia della sua vita è raccontata nel dolce biopic di Netflix Asakusa Kid), diventa presentatore tv prima di reinventarsi attore, ruolo col quale si affaccia nel mondo del cinema tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 con parti di minor rilievo fino alla rivelazione col capolavoro Furyo di Nagisa Ōshima al fianco di David Bowie (con Oshima avrebbe girato anche Taboo, il controverso ‘Brokeback Mountain nel Giappone feudale’ prima di Brokeback Mountain).

Da qui mira alla parte del regista ereditando la sceneggiatura di Violent Cop, che era stata scritta per Fukasaku (un grandissimo dello yakuza movie e demiurgo della decennale saga di Lotta senza codice d’onore). Kitano disprezza quella sceneggiatura dalla prima all’ultima riga e fa riscrivere tutto, perché gli aveva fatto venire in mente un film che sarebbe sembrato troppo un adattamento giapponese di Rambo

Violent Cop
Violent Cop – 1989

Quello di Takeshi Kitano è un cinema radicale, spesso definito ‘di destra’ se non addirittura fascista dai detrattori ma quanto mai inconfondibile: mai anarchico in termini godardiani, ovvero di rivoluzione anti-immagine, né riflessivo sulla materia cinema come quello di Abbas Kiarostami, che invece il cinema l’ha sempre ammirato riducendone significati e significanti di film in film; l’opera di Kitano è splendidamente e orgogliosamente fine a sé stessa, è profondamente conscia del suo essere cinema ma allo stesso tempo si annulla, lavora più sulle immagini singole che sulla loro consequenzialità e dalle immagini nasce e dipende.

Le parole arrivano come riempitivo tra una stasi e l’altra e spesso al posto della parole c’è uno scatto di violenza inaudita e inattesa, una caratteristica che appartiene più alla pittura che all’audiovisivo: non a caso Kitano tra le tantissime altre cose è anche pittore e di pittura spesso ha parlato, dal suo capolavoro Hana-bi ad Achille e la tartaruga.

Sonatine
Sonatine – 1993

Dalla filmografia emerge un ipertesto incredibilmente consapevole e maturo per generi affrontati e temi analizzati, sempre piegati alla propria sensibilità: dal poliziesco e lo yakuza-movie rivoluzionati con Sonatine, Boiling Point e la trilogia di Outrage alla sconfinata dolcezza de Il silenzio sul mare, dal senso e la voglia di libertà di Kids Return e Dolls all’arrivo a Hollywood con Brother, dal coming of age de L’estate di Kikujiro al – addirittura – jidai-geki Zatōichi. Perfino una parentesi da cinema alto della psicanalisi di stampo felliniano, che Kitano affronterà di petto nella surreale trilogia dell’arte composta da Takeshis’, Glory to the Filmmaker! e Achille e la tartaruga.

Un cinema universale ed essenziale che parla quasi in alfabeto morse, linea per le riprese lunghe e placide e punto per gli strappi di violenza e/o di delicatezza, un’arte fatta di soli poli contrastanti e di soli estremi che non conosce mezze misure o patteggiamenti. Tutto questo per dire che aspettiamo il suo ultimo film Kubi, storia di samurai nel Giappone feudale presentata a Cannes 2023 e ancora una volta scritta, diretta e interpretata dal maestro, quasi tanto quanto Ferrari di Michael Mann.

Matteo Regoli

critica i film, poi gli chiede scusa si occupa di cinema, e ne è costantemente occupato è convinto che nello schermo, a contare davvero, siano le immagini porta avanti con poca costanza Fatti di Cinema, blog personale

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