
The Bear Recensione Stagione 2: alla ricerca del tempo perduto
Questa recensione verrà scritta di getto, di fretta, al volo, senza ripensamenti né bozze da correggere in attesa di pubblicazione: un esercizio di stile, forse, nel tentativo di seguire il flusso e il ritmo forsennato imposto da The Bear, la pluripremiata serie creata scritta diretta e prodotta da Christopher Storer targata FX e distribuita in Italia dalla piattaforma di streaming on demand Disney+, o forse l’impossibilità a rinunciare a quel flusso, a quel ritmo, a quella frenesia che i nuovi episodi ti trasmettono mentre li guardi scorrere via da un’inquadratura all’altra, da un impiattamento all’altro.
Forse, semplicemente, eravamo in ferie quando Disney+ ci ha offerto l’anteprima di The Bear 2 e adesso dobbiamo correre, sbrigarci e affannarci per recuperare, per stare dietro ai dettami di Google rigidi come le classificazioni delle stelle Michelin. Perché, vedete, è tutta una questione di tempo: lo è in Oppenheimer di Christopher Nolan (qui la nostra recensione di Oppenheimer), finalmente in arrivo (in estremo ritardo rispetto al resto del mondo) nei cinema italiani a partire dal prossimo 23 agosto, ma lo è anche in The Bear 2, nel quale il tempo fugge via portando con sé la vita.
The Bear 2: alla ricerca del tempo perduto
Citiamo Proust non tanto per vezzo quanto per come nella seconda stagione di The Bear, che come nella più grande e illustre tradizione della serialità televisiva inizia con un primo episodio che potrebbe benissimo rappresentare l’ultimo della stagione precedente, a contare non è tanto la narrazione della sequenzialità degli eventi quanto il loro esistere in un momento specifico del tempo, in un dato istante, destinato a passare come fanno tutti gli istanti e non tornare mai più (a patto di non prendervi la libertà che lo streaming oggi concede agli spettatori nei confronti delle opere audiovisive, che si possono stoppare e riavvolgere all’infinito).
La premessa di The Bear 2, se vogliamo, è ancora più semplice di quella della prima stagione, che sfruttava la popolarità raggiunta in tv dal mondo dell’alta cucina grazie ai tanti talent show più o meno deliranti e la figura dello chef stellato come superstar e vip per fare tutt’altro e rivoluzionare le forme narrative della televisione attraverso il suo stile da sit-dram (neologismo appena inventato in questo articolo flusso, quindi alziamo il copyright e giù le mani): Carmen “Carmy” Berzatto (Jeremy Allen White), Sydney Adamu (Ayo Edebiri) e Richard “Richie” Jerimovich (Ebon Moss-Bachrach) devono sudare sette camice per trasformare la loro malmessa paninoteca in un locale di livello superiore, tra costi che si impennano debiti da ripagare regolamentazioni e permessi da ottenere e vite private da trascurare, perché il tempo fugge e la data dell’apertura si avvicina.
Ma naturalmente anche in questo caso la vicenda narrata è solo una scusa: a Storer interessa tutt’altro, ovvero alzare l’asticella di ciò che è possibile fare in televisione oggi.

E tutto quello che The Bear 2 fa è costruito sul ritmo, sul tempo che avanza: ci sono date sul calendario da cerchiare in rosso, didascalie che ci ricordano quanto manca ad un dato appuntamento, orologi digitali ben visibili posizionati in ogni angolo dell’inquadratura in specifici punti degli archi narrativi dei protagonisti, e poi ancora appuntamenti romantici da saltare (in sceneggiatura viene fatta una cosa con un numero di telefono che ha del sopraffino), settimane contate, giorni contati, ore contate, minuti che passano. Come in un film di Robert Altman i personaggi parlano uno sopra l’altro sovrapponendosi e sovrastandosi a vicenda e creando una cacofonia sinfonica (o una sinfonia cacofonica) che trasmette tutte le note della fretta, dell’impossibilità di ‘perdere il tempo’, del dover continuamente inseguire il futuro dietro l’angolo.
Tanto che poi la cosa più incredibile, non a caso, è l’uso del silenzio e delle pause, ovvero l’opposto della fretta al cardiopalma: The Bear 2 va così veloce che quando si ferma sembra che si sia messo in pausa il mondo intero, che quel singolo momento valga dieci ore di vita e che con quella sottolineatura la serie stia cercando di dirci qualcosa di imprescindibile su di sé e i suoi protagonisti.
Senza più Better Call Saul e dopo la stagione finale di Succession, The Bear 2 ci conferma che quella di Christopher Storer è la serie tv più bella e artisticamente compiuta degli ultimi anni: con la prima stagione è stato amore a prima vista, ma adesso è scoppiata la passione. Da consumare in fretta e furia.
Lascia un commento