
Tokyo Vice: la recensione della serie tv HBO Max di Michael Mann e JT Rodgers
Michael Mann è un regista di città, anzi di metropoli, ma è soprattutto anche un regista di romanticherie e di tragedie: e Tokyo Vice, tratto dal libro ‘Tokyo Vice: An American Reporter on the Police Beat in Japan’ del protagonista Jake Adelstein, fin dal titolo sembra nato per essere trasposto dall’autore di Miami Vice, in una splendida e ideale chiusura del cerchio della cultura pop che ne rappresenta anche il grande ritorno dietro la macchina da presa a sette anni da Blackhat.
Se recentemente il noir è rinato sul grande schermo sotto la maschera di The Batman, questo dramma crime in (gran parte in) lingua giapponese ambientato nel sottobosco della yakuza della Tokyo degli anni ’90 e basato su una storia vera (rimbombano, piano e in lontananza, echi di The Insider, altra storia vera manniana ambientata negli anni ’90 in cui il protagonista parlava giapponese) sposta questa rinascita sul piccolo schermo, con Michael Mann che, alla regia del pilot, schiva le luci al neon della Tokyo del Black Rain di Ridley Scott per portare una gravitas che è tutta michaelmanniana tanto nello sviluppo della narrazione quanto in quello dei personaggi – con i protagonisti eternamente divisi tra i doveri morali e professionali e le proprie passioni personali.

E in mezzo alle superfici riflesse sulle carrozzerie delle auto, che accolgono sul proprio corpo splendente le luci, le ombre e le immagini della città, in quei montaggi ritmati su sonorità rock, nell’occhio senza palpebra della camera a mano che insegue incessantemente le incertezze esistenziali dei personaggi, c’è, soprattutto, l’interesse ossessivo per gli ingranaggi del mondo notturno e l’interconnessione tra i suoi interpreti, legati da patti di amicizia virile che sembrano indissolubili e che vengono raccontati con una precisione filologica.
Giornalisti che scambiano informazioni con poliziotti, che poi influenzano le azioni della malavita criminale che a loro volta influiscono sulle storie raccontate dalla stampa, in un circolo vizioso che imprigiona e inquadra una malinconia sociale e un cinismo universale che paiono insormontabili. Come se nessuno, a nessun livello, e in nessuna lingua, possa ambire a quella felicità che tanto agogna.
Tokyo Vice e Michael Mann
Il primo episodio della prima stagione, l’unico diretto da Mann – che, per sua stessa ammissione, non ha curato nient’altro degli altri aspetti della serie, pur mantenendo un credito come produttore esecutivo: siamo ben lontani dai tempi della serie tv di Miami Vice, quando al contrario l’autore non diresse neppure un episodio ma da dietro il contratto di produttore esecutivo si caricò sulle spalle ogni minimo dettaglio di ogni singola puntata, facendo della show una sua opera in tutto e per tutto – ha tutto ciò che rendono i film di Michael Mann dei capolavori.
Anche se in formato ridotto, anche se in evidente fase di riscaldamento (dopo ‘Tokyo Vice’, l’autore ha finalmente iniziato i lavori sul tanto inseguito nuovo film ‘Ferrari’, attualmente in produzione), Mann dipinge un mondo di dettagli, di ralenti (quasi) impercettibili, un mondo antropocentrico di scelte e decisioni insormontabili (‘Pubblica questa storia e non saprai più dove nasconderti’, viene minacciato dalla yakuza il protagonista nel tipico inizio in medias res manniano, una prima scena evidentemente flashforward alla quale però il resto della stagione non si ricollegherà più), un mondo nel quale Jake vuole trovare il suo posto a tutti i costi nonostante chiunque cerchi di allontanarlo.
Certo le restanti puntate perdono quella magia, quella forza, quella pressione sulle immagini e quel vivere dentro le immagini, limitandosi a (tentare di) inseguirle e replicarle, ma pur proseguendo senza Michael Mann, Tokyo Vice rimane su livelli ben superiori alla media dei prodotti da piccolo schermo, appartenenti al genere o meno, e il suo clamoroso ritardo sui palinsesti televisivi italiani è a dir poco allarmante.
Tra le cose più affascinanti, oltre al divertimento di seguire lo sviluppo delle indagini e in parallelo le collisioni tra i personaggi e i loro mondi, il modo che Tokyo Vice ha di raccontare il Giappone con occhi occidentali, un approccio che la distingue (ad esempio) dagli yakuza movie esistenzialisti del maestro Takeshi Kitano (Violent Cop o Hana-bi giusto per citarne due a caso) o dalle loro riproposizioni nord-europee alla Nicolas Winding Refn (Solo Dio Perdona o Too old to die Young) facendo di questa serie un prodotto globale, nel senso che ingloba due mondi per trovarne un ideale punto d’incontro, e di messa in scena.
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